La recensione del premio Campiello, ‘I miei stupidi intenti’
Il protagonista di questo libro è Archy.
Viene alla luce insieme ai suoi fratelli, una notte d’inverno e già nelle prime pagine si sente la pesantezza della fame e della povertà.
Archy è una faina e i personaggi che si muovono in questo racconto sono tutti animali. Animali che vivono però in tane arredate, mangiano nei piatti e parlano la stessa lingua.
Già da subito ci si catapulta in un mondo fatto di caccia, di freddezza, a tratti estremamente crudele.
“È questo che fa la fame. Assottiglia il mondo a un unico bisogno. Non esiste pietà, o amore, o ancora la paura, il dolore, la vergogna; non esiste niente all’infuori di quella spinta, cieca, che è sopravvivere, mangiare”.
Archy non ha il papà, che è stato ammazzato, e di conseguenza la mamma decide di venderlo alla volpe Salomon in cambio di una gallina.
Ed è qui che la storia prende forma e la vita della giovane faina cambierà, poiché la volpe sa leggere e scrivere e decide di trasferire la sua conoscenza ad Archy.
Qui si aprono mondi, vette ed abissi, perché le domande esistenziali che scaturiscono sono molto profonde e spesso senza risposta.
Con costanza sprofonda nella consapevolezza della morte, cosa che in natura è data solo all’essere umano.
“Rivedevo la mia vita fino a quel punto e contavo quante volte mi era balenato in testa di poter morire. Nessuna. La morte aveva sempre toccato chi mi circondava, mai me; nel mio esistere la escludevo a priori, abbandonata dietro l’evolversi dei miei giorni, che credevo avrebbero continuato a scambiarsi senza orizzonti”.
Inizia a pensare a Dio e a quanto possa essere crudele farci combattere per qualcosa che alla fine ci viene tolta.
Questo è il racconto della sua vita, dei suoi amori, delle battaglie, del suo essere padre, delle delusioni e dei suoi pensieri sino ad accompagnarci alla morte, ciclo naturale di ogni essere e che tanto rifiutiamo e ci spaventa.
“Forse è questo che la morte ci insegna per chi sa del suo arrivo: quell’attimo più buio è un percorso solitario, nei meandri di se stessi, dove ogni cosa sparisce, e si tenta di riacciuffarla. È l’anima di questo mondo, la sua forza più grande; nessuno chiede di nascere, ma nemmeno di andare via”.
Questo testo di Bernardo Zannoni che ha soli 25 anni è una carezza ed ha molto potenziale. L’ho sentito ancora acerbo, ma essendo un ragazzo, credo che sia normale e che ci donerà ancora belle pagine.
Io ho provato l’angoscia e la tensione della morte, la paura di sparire, ma ancor di più delle persone che amo. Forse, non abbiamo piena coscienza della nostra fine e quindi quando siamo costretti a pensarci ci si sente sopraffatti, probabilmente è quello che quotidianamente provano gli anziani.
Essendo un’infermiera, per la natura dei reparti che ho vissuto in passato, ho avuto la “fortuna” di toccare spesso la morte, l’ultimo respiro.
Parlo di fortuna perché questo ti ricorda l’importanza dello svegliarsi, di poter parlare, ascoltare, mangiare, bere e di dare valore al quotidiano che spesso diventa automatismo. Sembrano frasi fatte, ma non è così quando di fronte si hanno delle vite e che quasi sempre incedono verso l’ora del crepuscolo, con tutte le paure e la solitudine che ciò comporta.
Mi veniva spesso in mente una frase di De André nella canzone “Il Testamento”.
Dopo che con ironia descrive tutti i personaggi attorno al letto di questo moribondo, conclude dicendo: “Questo ricordo non vi consoli
Quando si muore si muore soli.”
Senza togliere altro tempo a questo libro, divagando, ho trovato il titolo davvero bello. E’ un po’ questo, lo stupido intento di scappare, come tutti, dall’inevitabile.
Buona crisi
Alessandra Convertino