Tutto chiede salvezza
Ho appena terminato la lettura di questo libro. L’episodio più brutto, visto nel campo lavorativo, è il TSO.
Ne ho viste tante di situazioni difficili e di dolore, ho la possibilità di toccare con mano la vita e la morte e di sentirne il peso. Mi scontro spesso con realtà difficili e assaporo l’impotenza e l’incapacità di consolare l’inconsolabile. Però, lo sguardo di quel ragazzo che arrivò in pronto soccorso… il terrore negli occhi, il modo in cui gli tremava la bocca, la solitudine, lo sconcerto, il buio in cui galleggiava, il volto dei due poliziotti accanto che lo avevano condotto lì, non lo scorderò mai.
Questo libro, in forma di diario, racconta i sette giorni di permanenza forzata ed obbligatoria, vissuti personalmente dallo scrittore. A Daniele 20 anni, in preda ad un’esplosione improvvisa di rabbia, viene fatto un TSO: cosa è un TSO?
È l’acronimo di Trattamento Sanitario Obbligatorio. Viene applicato in caso di urgenza e qualora sussista un rifiuto al trattamento da parte del soggetto. Il TSO è disposto con provvedimento del Sindaco, in qualità di massima autorità sanitaria. Il trasporto avviene con la collaborazione della polizia locale e dura sette giorni. Deve essere considerato un evento eccezionale, in quanto possiamo vederlo come forma di massima limitazione della libertà personale.
Questo libro è un viaggio lungo una settimana, nel giugno 1994, un’estate di Mondiali. Il caldo torrido rende ancor più difficile la permanenza. Daniele si ritrova a condividere la stanza con altri uomini, ognuno con la sua storia.
Ogni giorno scorre sempre uguale, senza orologi nel reparto. Giornate scandite dal sole che si scorge dalla finestra e dai riti della giornata. Gli infermieri hanno approcci differenti: da quanti si spaventano, a chi si fa più aggressivo per nascondere la paura di essere attaccato. Psichiatri freddi, distanti, concentrati sulla medicina giusta, o la diagnosi:
“Bastava talmente poco. Bastava ascoltare, guardare negli occhi, concedere. Una volta, una sola volta. Invece non lo hanno fatto. Perché per loro non eravamo degni di essere ascoltati. Perché i matti, i malati, vanno curati, mentre le parole, il dialogo è merce riservata ai sani.
Questo abbruttimento è la scienza? Non aprirsi mai alla pietà, svuotare l’uomo fino a farlo diventare un ingranaggio di carne. Sentirsi padroni di tutte le risposte. È questa la normalità? La salute mentale? La vera pazzia è non cedere mai. Non inginocchiarsi mai (…)
Vivrò da infelice, prima o poi il dolore avrà la meglio, ma non siete voi quello che voglio diventare.”
Daniele, il protagonista, da quando è nato sente di vivere un’esagerazione dietro l’altra. Se c’è una vetta la deve raggiungere e se c’è un abisso lo deve toccare. Ciò che lo fa star bene è scrivere poesie, lette solo alla madre.
Non voglio aggiungere molto, posso solo dire che è un libro davvero forte e profondo. C’è una frase che recita così: “Certe pagine di certi libri è come se ti cambiano le impronte digitali mentre li leggi”. Quando ho terminato, sono andata a cercare su internet la sua foto, volevo guardarlo perché mi è arrivato forte dentro, come se lo conoscessi. La tenerezza che ho potuto provare per loro, per i genitori, per Daniele è stata forte.
“Mi piacerebbe dire a mia madre ciò che mi serve veramente, sempre la stessa cosa, da quando ho urlato il primo vagito al mondo. Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso questi primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua. Un poco alla volta ho accorciato, potato, sino ad arrivare a una parola sola. Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza. Questa parola non la dico a nessuno oltre me. Ma la parola eccola, e con lei il suo significato più grande della morte. Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo? O forse questa cosa che chiamo salvezza non è altro che uno dei tanti nomi della malattia, forse non esiste e il mio desiderio è solo un sintomo da curare. A terrorizzarmi non è l’idea di essere malato, a quello mi sto abituando, ma il dubbio che tutto sia nient’altro che una coincidenza del cosmo, l’essere umano come un rigurgito di vita, per sbaglio”
“Quale malattia mi fa chiedere salvezza? Quale educazione mi fa implorare pietà?
Fa che il mio sia solo uno scompenso della chimica, datemi tutta la chimica del mondo, ma chiudetemi gli occhi, il cuore, perché non ce la faccio più a soffrire così per quello che vedo, sento”
Un uomo che contempla i limiti della propria esistenza, che osserva gli errori fatti e li riconosce e ne soffre, non è malato, è semplicemente vivo.
Buona Crisi
di Alessandra Convertino